Un tempo si parlava di “esaurimento nervoso” quando una persona non era al massimo delle sue forzeda un punto di vista psicologico, poiché aveva vissuto o stava vivendo un evento fonte di stress.
Oggi il termine esaurimento nervoso è stato sostituito con quello di “depressione”. Spesso si è inclini a definire la depressione come quella condizione psicologica per cui l’individuo non è al massimo delle suo forze, spesso triste e demotivato, e quasi incapace di reagire agli eventi stressanti della propria vita.
In realtà definirla solo così è molto riduttivo poichè, da un punto di vista clinico, si parla di vera e propria depressione quando una persona per la maggior parte del giorno o quasi ogni giorno:
1. si sente triste, vuoto e depresso
2. vive in uno stato di insoddisfazione e disinteresse per ogni cosa
3. prova sentimenti di colpa eccessivi o inappropriati
4. ha difficoltà di concentrazione
5. vive preoccupazioni eccessive con pensieri ricorrenti di morte
6. riferisce mancanza di energia quasi ogni giorno
7. aumento o diminuzione significativi del sonno e del l’appetito.
In poche parole, quando viviamo momenti di crisi esistenziale poiché sembra che la nostra vita, cos’ì come l’abbiamo fino ad ora vissuta, non è più in grado di darci soddisfazione, oppure quando affrontiamo eventi di forte crisi come un lutto, una separazione affettiva, la perdita o mancanza di lavoro, possiamo sentirci tristi, demotivati, giù di corda, insoddisfatti.
Questi sentimenti se non accolti e sostenuti possono dare vita ad un vero e proprio quadro depressivo dove, al senso di tristezza e insoddisfazione circoscritti si sostituiscono un senso di vuoto e malessere profondo, pervasivo e resistente.
Quindi nella depressione vera e propria vivere la quotidianità diventa pesante, angoscioso e privo di significato e soprattutto gli incoraggiamenti da parte delle persone care del tipo: “ti devi fare forza, devi reagire” oppure “con la forza di volontà si risolve tutto”, non fanno altro che far sentire la persona depressa ancora più arrabbiata, incapace, triste e impotente.
Infatti spesso è proprio legittimando la propria sofferenza e tristezza invece di sminuirla, che la persona prova piano piano a guardarsi dentro e a dare un nome alle proprie pene.
“Quello che non si conosce fa più paura”, allora risulta “vitale” un ambiente non giudicante, rispettoso e comprensivo che permetta alla persona di andare a conoscere il proprio “mostro sacro”, e quindi renderlo meno misterioso e terrificante.
A volte le nostre vite per lo più serene, vengono spezzate da eventi tragici e sconvolgenti, altre volte reggiamo situazioni stressanti fino a crollare tutto insieme, altre ancora si rompe qualcosa dentro di noi e quello che aveva senso ieri non lo ha più oggi.
Tutto ciò può intaccare le nostre fondamenta, possiamo sentirci destabilizzati, non più in grado di avere il controllo sulla nostra vita e incapaci di sentirne tutto il gusto e sapore.
Ma è solo bagnandosi che si può imparare a nuotare, è solo riconoscendo il crollo, che si può provare a ricostruire.
In poche parole è solo accettando le nostre fragilità e rinunciando all’immagine di noi come“persone che dovrebbero essere forti”, che possiamo legittimare la nostra sofferenza affinché diventi occasione per progredire anziché per morire.
A cura della Dott.ssa maria Cristina Bivona