Voglio scrivere della mia esperienza, voglio scrivere di ciò che anni fa ha accesso il fuoco per la mia professione, ignara dei percorsi, della potenza e della passione che avrebbe significato e che tutt’ora significa.
Soltanto oggi mi rendo conto di come un libricino incontrato negli studi universitari, anni fà, sia diventato ricco di significati, sfumature e crescita per me come persona e psicologa.
Il libro in questione è “Lettera aperta a un apprendista stregone” di Aldo Carotenuto, uno psicologo lontano da quello che oggi è il mio approccio alla vita e al disagio psicologico, ma che è riuscito a esprimere pienamente quella possibilità e speranza di “rinascere dalle ceneri”, insita in ogni percorso di vita che si possa definire davvero terapeutico.
Carotenuto riteneva che all’origine della scelta di fare una professione basata sulla relazione d’aiuto, ci fosse un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale nella dieta affettiva, non una cicatrice, ma una ferita ancora aperta non rimarginata.
Questa ferita ancora aperta del guaritore, può garantire la via d’accesso, per comprendere senza giudizio le fragilità altrui, per stare nel dolore senza scappare, consolare, per accettare le imperfezioni e le storture di vite difficili. Il fatto che gli psicologi o chi si occupa di relazioni d’aiuto siano “soggetti da psicoterapia” non significa che chi aiuta è bisognoso di cure più del suo stesso paziente/cliente; ma vuol dire non smettere di crescere, non sentirsi mai del tutto guariti rispetto alle proprie ferite, arrivati rispetto alla propria crescita personale, vuol dire continuare ad imparare dai propri clienti, poiché è il riconoscimento delle nostre fragilità che ci rende “invincibili”.
Il guaritore ferito, tenendo costantemente d’occhio le proprie ferite e avendole riconosciute e accettate, può far sì che diventino delle “feritoie” attraverso cui guardare il dolore altrui con più compassione e comprensione. Perché quando una persona che soffre si vede accettate e riconosciute le proprie fragilità dal suo guaritore, allora potrà davvero smettere di lottare contro sé stesso e canalizzare quelle energie nella lotta per sé stesso. In poche parole quella ferita che non si è mai chiusa del guaritore, può diventare una spinta fortissima all’altro, alla relazione e al suo potere creativo e curativo.
Spero che le mie ferite non si rimarginino, che non diventino cicatrici trasparenti, che stiano li quando incontro una persona che soffre, a ricordarmi quanto a volte sia difficile vivere la vita, ma anche quanto sia possibile rinascere ogni giorno più forte dalle proprie ceneri. E’ per questo che amo il mio lavoro e mi sento fortunata, perché ogni persona che ho avuto modo di aiutare mi ha essa stessa aiutata, perché mi sono nutrita dello stesso clima facilitante che ho co-costruito, perché le relazioni davvero terapeutiche tra guaritori e feriti nutrono ed emozionano chi le vive.
E voglio dedicare a chi fa questo lavoro, a chi è in contatto in mille modi con la sofferenza altrui, le parole di Herman Hesse quando nella ‘Quercia spezzata’ scrive: “…E a dispetto del dolore resto Innamorato di questo pazzo mondo”.
A cura della dott.ssa Maria Cristina Bivona